Ruolo del partito Comunista Italiano e la questione Venezia Giulia

Mercoledì 9 Dicembre alle ore 17, in diretta facebook, si è svolto un nuovo incontro dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia sulle tormentate vicende del confine orientale italiano. Relatore Claudio Giraldi che ha affrontato il tema “Ruolo del partito Comunista Italiano e la questione Venezia Giulia” 

di Claudio Giraldi Ancora disorientati dalle ripercussioni politiche del Patto Ribbentrop Molotov (tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica) sia i comunisti slavi che quelli italiani mantennero un profilo basso sulle questioni militari relative all’occupazione della Jugoslavia. Tutto cambiò dopo la dichiarazione di guerra della Germania all’URSS, del giugno 1941 quando il PCI aveva accettato in linea di principio che le unità partigiane di orientamento comunista, operanti nel settore giuliano, venissero poste sotto il controllo delle strutture partigiane jugoslave; nel marzo del 1943 il distaccamento Garibaldi, (considerato il primo reparto partigiano della resistenza italiana) si era pertanto unito alle formazioni slovene.

Venne stabilito inoltre l’organizzazione di una struttura di sostegno ai reparti sloveni con la fornitura di viveri e medicinali. In quegli stessi giorni le organizzazioni partigiane italiane non comuniste operanti nella Venezia Giulia stavano invece sempre più evidenziando la loro diffidenza verso i partigiani jugoslavi ed il loro acceso nazionalismo. D’altro canto questi ultimi non si curavano in alcun modo di celare le loro mire annessionistiche, ed anzi nel ’43 il Movimento Antifascista di Liberazione Nazionale Jugoslavo proclamava a gran voce il suo buon diritto di annettersi l’Istria, Trieste con tutto il litorale adriatico comprese le città di Fiume e Zara, avendo addirittura la pretesa di richiederne l’avallo dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).

Del resto il 9 Settembre del 1944 l’esponente della resistenza jugoslava Kardelj, stretto collaboratore di Tito, in una lettera a Vincenzo Bianco, autorevole membro del PCI, ribadiva che il IX Corpus aveva avuto l’ordine di occupare Trieste, Istria, Gorizia e tutta quella parte del Friuli che avesse potuto raggiungere prima dell’arrivo delle forze Alleate. Come tutta risposta Bianco il 24 settembre, inviato a Trieste dalla direzione del PCI, diramava alle federazioni comuniste di Trieste e Udine la direttiva di far passare le loro unità partigiane sotto il comando del IX Corpus sloveno.

E’ chiaro che questo rappresentava un riconoscimento di fatto della politica annessionistica portata avanti dalle forze di Tito. Il 19 Ottobre lo stesso Togliatti, dopo aver incontrato Kardelj, non solo confermava sostanzialmente le direttive di Bianco alle federazioni di Trieste ed Udine, ma le integrava con la raccomandazione di fare in modo, per quanto possibile, che la regione venisse occupata dai partigiani di Tito, piuttosto che dalle truppe anglo-americane.

In questa prospettiva il capo del P.C.I. consigliava che le strutture locali del partito collaborassero con gli slavi nell’organizzare un potere popolare nelle zone liberate ed un contropotere in quelle ancora sotto occupazione tedesca. Sulla questione di fondo, la definizione della futura frontiera Italo-Slava, Togliatti non indicava una soluzione, ma solamente il metodo attraverso cui ricercarla e cioè quello di un confronto fra ‘democratici’ italiani e ‘democratici’ jugoslavi, ovverossia fra i due Partiti comunisti. Di fronte alla ferma opposizione che queste proposte incontravano da parte dei rappresentanti degli altri partiti, i comunisti giuliani uscivano definitivamente dal C.L.N. formando un comitato di coordinamento italo-jugoslavo dichiarato esteso a tutte le forze antifasciste giuliane.

Il 17 Ottobre dello stesso anno, il P.C.I. giuliano emanava un proclama in cui si annunciava che in breve tempo sarebbero incominciate le operazioni dell’esercito di liberazione jugoslavo per l’espulsione dei tedeschi dall’Italia Nord-Orientale e s’invitava la popolazione ad accogliere i partigiani di Titini non solo come liberatori, bensì “come fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittoria contro l’occupazione nazista e dei traditori fascisti”. Sollecitava altresì tutte quelle unità che si sarebbero venute a trovare ad operare all’interno del campo operativo dei partigiani jugoslavi a porsi disciplinatamente ai loro ordini e per la necessaria unità di comando e per il fatto che quelli erano meglio inquadrati, più esperti e meglio diretti.
Il proclama si concludeva impegnando tutti i comunisti ed invitava tutti gli antifascisti a combattere, tutti coloro che, con il pretesto del ‘pericolo slavo’ e del ‘pericolo comunista’, lavoravano per sabotare gli sforzi militari e politici dei seguaci di Tito.

In questo modo si creavano le condizioni affinché l’operato degli occupanti slavi diventasse totalmente insindacabile, data la facilità di far passare ogni azione difforme alla logica annessionistica slava come imperialista e nazionalista, ponendo così gli italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia in completa balia degli slavi. Di fronte a posizioni così estreme gli esponenti democratici cristiani, azionisti, socialisti e liberali rimasti nel CLN di Trieste, stringevano un patto di unità d’azione e redigevano a loro volta un proclama emanato il 9 dicembre e prontamente diffuso dalla stampa e dalla radio italiane.

Non esisteva ancora l’Italia democratica ma già si manifestavano i primi dissidi, e distinguo politici. In tale comunicato, infatti, veniva riaffermato l’impegno delle forze politiche aderenti al comitato, di difendere le frontiere ottenute dall’Italia dopo la prima guerra mondiale, combattuta contro i tradizionali nemici austriaci e tedeschi a fianco di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti.

Si garantiva tra l’altro il rispetto dell’autonomia culturale delle minoranze croate e slovene che sarebbero rimaste incluse in quei confini, si ipotizzava inoltre la creazione a Trieste di un porto franco, alla cui amministrazione avrebbero partecipato tutti i paesi interessati. Sul finire del ’44, nella loro polemica col CLN ed in coerenza con il loro allineamento alla linea di Tito, i comunisti italiani di Trieste partecipavano al costituito comitato civico congiunto sotto la guida di Rudi Ursich, accettando in pratica tutte le rivendicazioni territoriali slave. Vista la non disponibilità degli altri componenti del CLN triestino di seguirli su questa strada di completa resa alle pretese slave, i comunisti italiani formavano insieme con i titini, il 13 Aprile ’45, il Comitato Esecutivo Antifascista Italo Sloveno (CEIAS).

Il 30 Aprile a seguito dell’insurrezione italiana contro le truppe degli occupanti tedeschi, comandata dal CLN di Trieste, dopo aspri combattimenti venne liberata quasi tutta la città salvo alcuni caposaldi in cui questi ultimi, trincerati, ancora resistevano. A questi combattimenti i comunisti, sia italiani che slavi, si guardarono bene di intervenire, salvo espropriare della paternità dell’azione il CLN, quando a tappe forzate giunse il IX Corpus partigiano e la IV armata regolare jugoslava, che nella loro azione precipitosa avevano lasciato in mani tedesche ampie ed importanti zone del loro territorio nazionale come Zagabria e Lubiana, pur di evitare che a liberare il capoluogo giuliano fosse il CLN od eventualmente le truppe degli alleati anglo-americani.
Ambedue le cose non riuscirono agli slavi perché il pomeriggio successivo, quando le truppe alleate stavano sul punto d’entrare in Trieste, il controllo della prefettura e del municipio erano ancora saldamente in mano del CLN.

Tuttavia la consegna simbolica del passaggio dei poteri, dal CLN alle truppe neozelandesi, non riuscì perché, per evitare un aperto conflitto armato con i comunisti italo-slavi, i rappresentanti del CLN furono costretti a ritirarsi.

Comunque la resa delle residue truppe tedesche ancora asserragliate nella città avvenne nelle mani delle forze Alleate e non in quelle slave come volevano i titini. Incominciava così il periodo di martirio per la città giuliana sottoposta alla feroce repressione degli occupanti slavo-comunisti a cui i neozelandesi assistettero senza intervenire.

La prima azione dei “liberatori” fu di disarmare i partigiani italiani del CLN, la Guardia Civica, il Corpo dei Volontari della Libertà, qualunque forza armata cioè che potesse intralciare in qualche modo la loro volontà annessionistica. L’unica formazione politica italiana che fu lasciata libera di agire fu il PCI giuliano; tutte le bandiere italiane furono fatte ammainare, quelle che la gente esponeva sui balconi furono fatte ritirare a colpi di mitra; la stampa libera fu soppressa, le uniche pubblicazioni furono quelle del PCI giuliano e degli occupanti slavi. Nel frattempo l’OZNA, la famigerata polizia politica slava, agiva silenziosamente facendo sparire i maggiori esponenti del CLN e degli Autonomisti, mentre il CEIAS a cui aderiva il PC giuliano dava vita ad un Consiglio di Liberazione di Trieste, al quale il generale Kveder consegnava l’amministrazione della città pronunciando un discorso in cui si diceva che ben presto Trieste sarebbe entrata a far parte della repubblica federale Jugoslava con uno statuto autonomo.

Il 5 maggio una manifestazione spontanea di migliaia di Triestini che si erano radunati in corteo dietro una bandiera italiana fu sciolta a raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo con la conseguente uccisione di 5 persone tra cui un’anziana donna di 69 anni ed un giovane ragazzo, che nel corso della sua breve vita aveva già avuto modo di sperimentare la “liberazione” titina essendo un esule di Fiume.

Il 6 giugno tutti i triestini ricevettero l’ordine di presentare le loro carte di identità per farvi imprimere il simbolo della loro nuova “libertà”, la stella rossa. Contemporaneamente l’ufficio competente provvedeva a ritirare i documenti agli elementi da loro ritenuti sospetti ed a rilasciare alle torme di slavi, recentemente calati in città, documenti attestanti il fatto che vi risiedevano da sempre.

Dalla foiba di Basovizza si andavano intanto recuperando, tra il raccapriccio generale, le povere salme degli “epurati”, piccolo segno della normalizzazione slava, e veniva acquistando triste fama la villa Segrè Sartori, dove una famigerata squadra volante della “Guardia del Popolo” andava perpetrando ogni sorta di torture sugli sventurati che tentavano loro di opporsi (tra cui non mancarono comunisti italiani dissidenti).

Del resto il XIII Corpo Alleato aveva informato il Comando Supremo del Mediterraneo che in base all’indagine effettuata almeno 1.480 persone erano state deportate dalla Zona A e di altre 1.500 mancava ogni notizia, il rapporto continuava affermando che tra il 1^ maggio ed il 12 giugno nella sola provincia di Trieste erano state uccise 3.000 persone.

Per chiarire ulteriormente la posizione e le responsabilità politiche avute dal PCI italiano nell’evolversi della situazione basta rifarsi alla lettera che Togliatti inviò nel ’45 all’allora Presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi.

In questa missiva, consultabile nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, Togliatti arrivò a minacciare una guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia-Giulia, evitando in tal modo l’occupazione e l’annessione de facto alla Jugoslavia.

A patire le conseguenze di questa presa di posizione furono le popolazioni dell’Istria e della Dalmazia, che in balia dei titini subirono una metodica opera di terrorismo, che indusse la maggioranza della popolazione ad abbandonare compatta le proprie case per cercare un rifugio nella disastrata Italia post-bellica, cosa che non era avvenuta nei precedenti rivolgimenti politici subiti dalla nostra regione di frontiera né con i francesi di Napoleone e neppure sotto il dominio austriaco.

Il comportamento operato nella Venezia-Giulia dai titini, a cui il PCI si prestò passivamente e non, fu una vera e propria “pulizia etnica” tipo quella praticata dalle varie fazioni ferocemente in lotta tra loro in quella che fu la Federazione jugoslava durante le guerre balcaniche degli anni novanta.

Per inquadrare l’entità del genocidio e del conseguente esodo basti dire che i morti giuliani-dalmati durante la guerra, furono nettamente superiori alla media nazionale, a cui bisogna però aggiungere le uccisioni e gli infoibamenti che sono continuati ben oltre il termine della guerra, e che portarono le foibe a riempirsi di oltre 12.000 persone, dati ufficiali dell’Organizzazione Internazionale Rifugiati, e la regione a svuotarsi di oltre 300.000 dei suoi originari abitanti, a testimonianza di un referendum popolare patito sulla propria carne in mancanza di quello che civilmente si reclamava per stabilire il destino della regione e dei suoi abitanti.

A completare il quadro non può essere taciuto l’atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, che considerava ogni profugo come fascista. Non si può dimenticare cosa scriveva l’Unità del 30 novembre del 46:“Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.”

I “comitati d’accoglienza” organizzati dal partito contro i profughi all’arrivo in Patria furono numerosi. All’arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali.

A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell’aprile 1948 arrivò ad affermare: “in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani”.

A Bologna i ferrovieri della CGIL, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza. I profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di ordine pubblico.

Occorre inoltre rimarcare la costante azione di travisamento dei fatti e del di misconoscimento dell’immane tragedia, operata da parte di una intellighenzia di sinistra, lungamente predominante nella scena politico-culturale italiana, che supinamente ha voluto interpretare l’esodo soltanto con gli occhi dell’ideologia e non con quelli dell’umana pietà, con la conseguente liquidazione degli eventi giuliano-dalmati nei libri di storia, con un semplice trafiletto limitato genericamente al solo “problema di Trieste”.

L’occultamento e l’oblio storico è riuscito così bene che la stragrande maggioranza dei giovani italiani mentre sa quasi tutto sui “desaparecidos” argentini e cileni, sui palestinesi, non sa quasi nulla dei fatti istriani e dalmati, e quando dico di essere nato in Istria mi sento rispondere: “Ah, allora sei slavo!”. Ma torniamo a Togliatti, nel ’45 giustificava la rinuncia della V. Giulia con l’esigenza della pace. A ricordarci le responsabilità che permisero le stragi degli italiani da parte dei partigiani slavi escono ora i «Diari» completi (dal 1933 al 1945, di Dimitrov, il comunista bulgaro al quale faceva riferimento Togliatti nei suoi rapporti con Stalin, che appunto tramite Dimitrov il 17 maggio del ’45 fece sapere che Trieste doveva andare alla Iugoslavia.

Era il punto d’arrivo di un via vai di richieste di ordini precisi che da Roma erano partite per Mosca, e che il bulgaro registrava fedelmente. Nel febbraio, per esempio, Togliatti gli aveva inviato un tele cifrato in cui scriveva «La maggioranza gli italiani considera Trieste come una città italiana. La popolazione locale in gran parte italiana accetterebbe lo status di città libera, specie se questo fosse proposto da noi comunisti, consigliatemi su cosa fare».

Ma Mosca aveva deciso per Tito e Togliatti si stava già muovendo in questo senso, come dimostra una sua lettera inedita del 7 febbraio 1945. Ma andiamo con ordine. Il ministro dell’Aeronautica, il demo-laburista Gasparotto, il 24 gennaio aveva inviato al Presidente Bonomi e a De Gasperi una relazione sulla propaganda jugoslava nella Venezia Giulia, dove veniva documentata l’opera di snazionalizzazione della provincia, sia attraverso la propaganda, sia attraverso l’eliminazione fisica degli italiani recalcitranti.

Sulla base di tali informazioni, Gasparotto, come si ricava da una lettera di spiegazioni a Bonomi del 26 febbraio (nella quale chiedeva che venisse comunicato il rapporto anche a Togliatti) aveva esposto le sue preoccupazioni a diversi amici, dichiarando che i patrioti triestini non dovevano «farsi sorprendere dal fatto compiuto» di fronte a un tentativo di occupazione jugoslava.
Le parole di Gasparotto erano state comunicate a Togliatti, allora vicepresidente del consiglio, il quale, appunto il 7 febbraio scriveva a Bonomi una lettera di protesta che merita attenzione.

Togliatti trasforma le preoccupazioni del collega di governo, come una sua presunta direttiva al Comitato partigiano per l’Alta Italia, «per impedire che in essa (Venezia Giulia) penetrino unità dell’esercito jugoslavo».

Ecco la lettera testuale
“Caro Presidente,
Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita lo stesso a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il loro controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell’esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera. perché, prima di tutto, una direttiva di questo genere non potrebbe essere senza consultazione del Consiglio dei Ministri. Circa il fondo del problema, è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese, dei più seri pericoli. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi le unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia!. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili. Quanto alla situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso del resto la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da darsi è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse. Voglio sperare che la informazione che mi è stata data non corrisponda a verità. Ad ogni modo credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l’azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto
Cordialmente Togliatti – Roma , li 7/2/1945″

Si tratta, è evidente, di un documento straordinario, perché è forse l’unico caso di una lettera autografa in cui Togliatti dichiara di aver dato disposizioni ai comunisti locali per favorire l’occupazione iugoslava.

Parlando dello specifico di Togliatti e Trieste
Mentre nei Paesi sotto il dominio dell’Armata Rossa i partiti comunisti iniziarono una feroce repressione contro i loro oppositori politici, in Italia invece finirono per lavorare all’interno di un contesto democratico. Ciò ha portato alcuni storici a ipotizzare una sorta di «diversità» del Partito Comunista Italiano considerato come sostanzialmente «diverso» dai suoi omologhi dell’Est.
Altri storici invece hanno mostrato non solo che Palmiro Togliatti rimase fino all’ultimo un «Uomo di Mosca», ma anche che la partecipazione del Partito Comunista Italiano all’interno di un contesto democratico non era in contraddizione con il lealismo mostrato verso l’Unione Sovietica in quanto lo stesso Stalin conforterà Togliatti nello seguire la via parlamentare e vieterà ai comunisti italiani di tirare fuori le armi dai nascondigli per prendere il potere.

La ragione di questo approccio si spiega con la logica dei «rapporti di forza», secondo cui – come disse una volta il leader georgiano – «chi occupa un territorio, vi impone il proprio sistema sociale»; e l’Italia rientrava, secondo queste logiche, nella sfera di competenza degli Americani.
Questa situazione pose il PCI di fronte a una vera e propria contraddizione: mentre da un lato cercò infatti di darsi l’immagine di un «Partito nazionale», dall’altro non nascondeva la sua vicinanza con i Paesi Socialisti.

Di fronte a questa situazione non sorprende quindi che Togliatti assumesse posizioni contraddittorie riguardo alla questione della futura collocazione di Trieste. Nell’ottobre del ’44 Togliatti incontrò a Bari due rappresentati di Tito, Edvard Kardej e Milovan Gilas, e in quella riunione, stando al verbale redatto da Kardej, Togliatti accolse le rivendicazioni dei due inviati al punto da affermare che Trieste sarebbe dovuta spettare alla Jugoslavia.

Pochi giorni dopo Togliatti avrebbe inviato una direttiva al dirigente del PCI Vincenzo Bianco nella quale, parlando dell’occupazione jugoslava, affermava che «è un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e dobbiamo in tutti i modi favorire. In questa regione non vi sarà né un’occupazione, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nel resto d’Italia».

Sebbene nella direttiva Togliatti cercasse di operare una distinzione tra l’«occupazione» che bisognava favorire in tutti in modi, e l’«annessione» che si sarebbe invece dovuta trattare in una futura conferenza di pace, era tuttavia chiaro che il controllo politico e militare dei territori contestati forniva alla Jugoslava una solida carta per assicurarsi il loro mantenimento nel dopoguerra.

Poi, il colpo di scena che, secondo il Pci, avrebbe dovuto placare i risentimenti nazionalistici e risolvere il problema. Nel novembre 1946 Togliatti incontra Tito e si accorda con lui per lo scambio Trieste contro Gorizia.

L’annuncio lo da’ egli stesso in tono trionfalistico sull’Unità, ma Nenni non gradisce: “Tito rinuncia a ciò che non ha e ci chiede ciò che abbiamo”; per non dire dell’ondata di sdegno che immediatamente travolge quel baratto.

Specie a Trieste dove era ancora vivo il terrore per la feroce e sanguinaria occupazione titina del maggio 1945, quando Togliatti aveva esortato “ad accogliere le truppe di Tito come truppe liberatrici”.

Lo stesso Togliatti aveva infatti attribuito le uccisioni avvenute a Trieste nei primi giorni di maggio a «una giustizia sommaria fatta dagli stessi Italiani contro i fascisti», e la stampa comunista cercò inoltre di negare che la fuga degli Italiani fosse causata dalla persecuzione subita dal regime di Tito, ma sostenne invece la tesi che le partenze fossero provocate dalla propaganda dei settori anticomunisti che incitavano la popolazione indigena a lasciare le loro terre (oltre ad avanzare l’insinuazione che buona parte dei profughi fossero in realtà dei fascisti in fuga).

L’obiettivo che Togliatti si prefiggeva era infatti quello di trovare una soluzione che potesse venire incontro alle richieste jugoslave salvaguardando allo stesso tempo la sua immagine politica in Italia. Atteggiamento più democristiano che comunista.

A tal fine Togliatti propose quindi di concedere, per alcuni anni, «piena autonomia politica e doganale» alla Venezia Giulia in vista dell’istituzione di un plebiscito in cui la popolazione residente avrebbe dovuto decidere se aderire all’Italia o alla Jugoslavia.

A ogni modo, l’influenza del PCI (e degli altri partiti italiani) nella contesa riguardante i territori contestati era assai limitata in quanto le decisioni finali spettavano agli Alleati che, come abbiamo visto nella scorsa conferenza, nel Trattato di Parigi, sancirono infine la cessione alla Jugoslavia di parte della Venezia Giulia dell’Istria e della Dalmazia e la nascita del Territorio Libero di Trieste (la città sarebbe infine tornata all’Italia nel 1954).

Ma di colpo, nel 1948, il problema di Trieste perde smalto. C’è la rottura tra Tito e Stalin, il Pci appoggia ovviamente l’Urss e i comunisti possono trasformarsi in difensori dell’italianità della città, contro le mire dello sconfessato despota di Belgrado.

Togliatti non ha più bisogno di costituire una cellula comunista al ministero degli Esteri per controllare le mosse del governo; non corre più a riferire ogni giorno all’ambasciatore sovietico. Non c’è necessità.

Il destino di Trieste, per quanto riguarda il Pci, consente di schierarsi in difesa dell’italianità. Come diceva Guareschi: “Contrordine, compagni”. Ma la questione si riaccende periodicamente fino all’ottobre 1954, quando la risolve l’accordo degli Alleati grazie al quale Trieste è assegnata all’Italia.

Conclusioni
Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l’idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all’evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all’opinione pubblica. Dimostrando se ce ne fosse bisogno, che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito. Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l’altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall’altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, favorì l’occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all’annessione slava. Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l’intera esistenza, ma la vita stessa. L’atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai “compagni slavi” del PCI è proseguito nell’immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.

(crediti immagine Arcipelago Adriatico)

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